A me piacciono, ma così stiamo esagerando, eh. Questi
social network sono deleteri, uno strumento del demonio, ci hanno cambiati, ci
manipolano!
Ma quando mai, oh.
Eravamo mediamente brutti anche
prima, solo che non era così facile che emergesse e soprattutto che questo
diventasse motivo di orgoglio. Le stupidaggini che si sparavano al bar
rimanevano confinate lì o al massimo nel vicinato, mentre oggi hanno un
potenziale di diffusione pressoché illimitato. Io, nel nostro piccolo di
un’isola piccola, ricordo i casi del misogino che augurava lo stupro e della
razzista che inveiva contro gli islamici, “anche i bambini”. Erano/sono
peraltro entrambi in politica. Come il consigliere comunale che qualche giorno
fa ha prodotto una vignetta misogina (signori, ma fatevi curare…da uno/a
bravo/a, però, che abbia pazienza) contro una giornalista.
Qualcuno, anzi molti, era anche mediamente o
perfino molto bello/a “prima” di questi strumenti, che in molti casi hanno
messo in evidenza le caratteristiche di creatività, originalità, equilibrio che
si posseggono, di “fiuto” per le notizie interessanti che si condividono in
qualche modo rendendosi utili, eccetera. Io, personalmente, conosco molti di
questi casi.
La cosa che accomuna queste due tipologie- e i
gattini miagolanti, le catene di S.Antonio in versione virtuale, i giochi, i
selfie propri e altrui a valanga, per elencare solo qualcuna delle sfumature
che stanno nel mezzo- è la consapevolezza di come funzioni il mezzo, e il modo
del tutto nuovo di comunicare che talvolta cambia anche i contenuti, in
funzione di esso.
Non si tratta, cioè, solo di mettere un selfie in
cui sembriamo sexy o fighi piuttosto che una foto brutta, ma di stare attenti a
non postare esattamente tutti gli stati d’animo che viviamo, minuto per minuto;
perché questo, insieme al selfie di cui sopra e alle condivisioni di altre
cose, ci dipinge sia per come siamo che per come vorremmo essere.
Il social, insomma, è un istigatore, un generatore
di contenuti che non sapevamo nemmeno di voler produrre; abbiamo la tentazione
di inserirci nelle discussioni, di stuzzicare i provocatori, di "postare cose e vedere gente", di raccogliere
commenti. E soprattutto consensi.
E’ una lente d’ingrandimento potentissima, a
saperci guardare dentro; tutti conosciamo i contatti, cioè le persone, con cui
interagiamo più spesso, e sappiamo già come reagiranno. Non so se questo mi fa
più paura o mi rassicura, confermando la mia impressione che il “mondo grande e
terribile” della Rete sia in realtà un piccolo paese che ci costruiamo a nostra
immagine e somiglianza.
Solo una cosa: forse bisogna cominciare a pensare a
dei “tutor”, se non anche a un piccolo vademecum dei social network, con
domande tipo: cos’è la “viralità” del web?
A) un malanno
stagionale che si cura con la propoli, le tisane e l’estratto di sciikimiki;
B) un
meccanismo velocissimo e incontrollabile dei contenuti che postiamo sul web;
C) non lo so e non m’interessa/non sa, non
risponde.
Lo dico non solo per noi mortali, s’intende, ma soprattutto per quelli che con
le parole e l’immagine ci lavorano in qualche modo, tipo giornalisti,
scrittori, artisti, sottosegretarie e parlamentari che bisticciano via Twitter,
cose così.
[Intanto seguiamo le cose buone, eh. Tipo la prima
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