La mia
generazione è quella schiacciata tra i giovani “veri” (sotto i 30 anni), un po’
NEET (not employment or training, che non lavorano nè studiano) e un po’ pronti ad andarsene vista la mala
parata, e i 50 enni che hanno perso il lavoro, esodati abbandonati al loro
destino o orfani di un posto che pareva stabile.
La verità
è che #lamiagenerazione
è quella dei reietti sociali, dei paria, degli invisibili. Del "lavoro da
inventare", dei sorrisi di circostanza, del "faccio cose vedo
gente". Del "stai a casa perchè hai i bimbi piccoli,eh". Di
quelli che i bimbi non li hanno fatti mai. Non ancora cinicamente data per
spacciata come gli over 50, non interessante elettoralmente come i veri
giovani, su ci si dirigono le poche idee di politiche per il lavoro.
Abbiamo
40 anni o più, ci aggiriamo storditi nei labirinti di contratti trimestrali non
rinnovati, di lavoretti da 15 giorni, di disoccupazioni non riconosciute e
ormai di lunghissima durata. Ci chiedono la partita IVA, la ritenuta al 20% su
500 euro, propongono compensi a cottimo a 8 euro lordi. Sta passando un
concetto di subcultura per cui è normale non pagare il lavoro, accettare
qualunque cosa, anche in perdita. Perché?
Perché se
hai fatto tardi rispetto al 1999-2000, se non hai i contatti giusti (che devono
essere molto saldi, a stretto giro di parentela perché la concorrenza è
spietata), se non vinci un concorso della disperazione, se hai fatto altre cose
o le cose sbagliate, sei semplicemente invisibile. Per le istituzioni e anche
per i tuoi simili, i familiari, la cerchia parentale. Si “fanno cose e si vede
gente”, si galleggia, non ci si da per vinti.
Semplicemente, non è possibile: andare avanti è come la fame e la sete,
che non puoi ignorare ma solo gestire.
Leggo sui
giornali prima di un ministro del Lavoro che si accorge dell’esistenza degli
over 50 e promette che se ne occuperà, poi dei primi provvedimenti della nostra
giunta regionale. La “Garanzia giovani” si aggancia, evidentemente, agli
incentivi precedenti che individuano sempre nella fascia 15-29 anni la priorità
assoluta su cui intervenire. Va benissimo, anche se qualcosa non quadra: in un
paese (l’Italia) mediamente poco scolarizzato rispetto al resto d’Europa e una
regione (la Sardegna) in cui la dispersione scolastica è molto alta, dovremmo
forse cercare di tenere i ragazzi a scuola almeno fino al diploma, con altre
politiche. Certo, si dirà, “sò statistiche”, perché appunto trattasi di fasce
d’età fissate per convenzione.
Quando
però spiego a chi si lamenta dei “giovani senza lavoro” che questi giovani di cui parlano la Tv e i
giornali sono i 15-29 enni, gli sguardi sono perplessi. Come, non è il loro
figlio/nipote/cugino/ecc. di 33, 35, 40 anni perfino?
E allora
dove dobbiamo metterli, come dobbiamo chiamarli questi sfigati dell’età di
mezzo? Se i policy makers non li
vedono, e di conseguenza i media non ne parlano mai, magari non esistono, o
sono proprio pochi, vero?
E’ questo
il tempo della mia generazione, di quelli rimasti indietro per qualche motivo
(familiare, professionale, di studio o semplicemente di tempistica sbagliata),
che però sono anche invisibili. Aggiungerei intrattabili, come un malato molto
grave: nessuno sa che farsene. Non siamo però ancora ingestibili, perché la
difficoltà è sì tanta, e ci fiacca.
Da qui l’assenza di proteste strutturate,
di voci che si alzino per dare un segnale di esistenza, di vita su un pianeta
al confronto del quale Marte parrebbe ospitale.
Poi c’è
il contraccolpo sociale, non meramente statistico, di cui vedremo gli effetti
tra qualche anno: possibile che le grandi menti che decidono le politiche per
il lavoro non facciano due più due collegando la situazione attuale a quella
immediatamente futura? Possibile che non vedano il collegamento tra i padri e
le madri di oggi- precari, disoccupati, disgregati e poveri di risorse
economiche e di risparmi per il futuro- e i figli che domani saranno i
“giovani” di cui sopra?
Se noi, i
nati negli anni Settanta in cui l’ “ascensore sociale” funzionava, per cui
anche le famiglie economicamente modeste avevano certezza del buon esito dei
loro sacrifici, e quelle più “benestanti” potevano offrire dei benefit
formativi quali viaggi e opportunità di studio diversificate- abbiamo studiato
a scuola e magari anche uno strumento o una lingua straniera, abbiamo viaggiato
con gli amici e interagito con altre culture o semplicemente fatto lo studente
fuori sede o l’Erasmus, è perché i nostri genitori lavoravano.
E guadagnavano, com’è normale.
Come faremo domani a far studiare
i nostri figli? Con quale animo li convinceremo che impegnarsi è giusto, che
volere è potere, che il lavoro duro paga?
Non è
soltanto questione della vita dignitosa di oggi, ma anche di quella dell’immediato
futuro. E’ una cosa da non dormirci la notte, è qualcosa a cui reagire.
Non ci resta che piangere? Ma neanche per sogno, che poi mi
cola il mascara e mi si gonfia la faccia: a 40 anni sono tutte cose che
non ti rendono affascinante e tormentata, ma banalmente impresentabile. Quando
ho pensato alle fasi di questo tempo che mi, e ci, è toccato in sorte, ho
pensato alla
RABBIA,
ovvero alla fase di sgomento, aggressività soltanto interiorizzata e raramente
espressa, se non in forme di protesta- anche politica- in cui il rischio di
essere strumentalizzati è enorme. La rabbia – per cui si prova anche odio
sociale per le ingiustizie quotidiane, dal caprone piazzato in un posto di
comando al fatto che devi sempre dipendere dall’umore di qualcun altro- è
almeno una reazione, il senso vitale di ognuno, il segnale che non siamo morti
ma soltanto tramortiti, almeno all’inizio.
Quando capiamo che da sola non
basta, passiamo alla
RESISTENZA
: tutti campioni olimpici di questa disciplina. Praticata per necessità o per
attitudine personale, ci ha fatto attraversare circa due decenni di precariato,
cattivi lavori, impossibilità di concretizzare progetti di vita, o al contrario
ci ha fatto comprendere una cosa assai importante, e cioè che il tempo è la
variabile fondamentale, l’unica che possiamo gestire a prescindere dalla
“recessione” (sic!). E non bisogna sprecarlo.
Quindi se vogliamo un figlio
facciamolo, d’accordo?
Infine la
RESILIENZA,
unico punto su cui #lamiagenerazione è
messa bene. Stiamo piano piano imparando ad adattarci modificando le nostre
aspettative non solo sul futuro ma sul presente immediato, su un tempo che non
va oltre il prossimo anno. Siamo temerari? Direi piuttosto fatalisti,
pratichiamo una decrescita certo infelice ma alla fine ci siamo abituati, e non
è un male né un bene. E’ andata così. Salviamo le nostre passioni, che ci
aiuteranno a praticare la nobile arte del galleggiamento.
Non c’è tempo per
odiare, solo per entrare e attraversare questo tempo meglio che possiamo, con
strategie a brevissimo termine, continuamente modificabili.
E poi,
caratteristica fondamentale della resilienza, sapremo riprendere la nostra
“forma originale”, l’ "omeostasi" del nostro ecosistema, il nostro equilibrio,
magari perfino migliorata, quando se ne presenterà l’occasione
Perché voglio
credere a quello che mi ha detto un amico: “Verrà anche il nostro momento, in
cui avremo quello che ci meritiamo. Lo sento, ne sono certo”.
Ah, Buona
Pasqua a tutt*. Sul serio.
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