…“Forse è perché la riverenza e
l’ammirazione sono emozioni che ci attraggono; amiamo provarle, se troviamo
qualcuno che davvero le meriti. Politici e militari non sono più adatti. Gli
sportivi non hanno la giusta gravitas., ecc.”
E visto
che tutti vogliamo qualcun* da amare, chi rimane? Tim Parks (da questo post nel
blog di Vito Biolchini) gli scrittori. Io generalizzo e dico gli intellettuali
in senso ampio. Le parole dello scrittore inglese hanno chiarito un concetto
che da qualche tempo cercavo di definire senza riuscirci, e cioè il fatto che
tutti vogliamo essere intellettuali, anche senza “avere il fisico”, a volte.
“Si scrive per competere” scrive
Parks, e aggiunge: “Essere vincenti è la vera ossessione degli scrittori, anche
quando veicolano le emozioni, le idee e i progetti più nobili”.
Perché
amiamo amare gli intellettuali, che a loro volta amano essere amati.
Mi spiego
meglio: negli ultimi tempi, qualsiasi lavoro si faccia, molti desiderano anche
essere considerati così: profondi, culturalmente dotati, in possesso di quelle
qualità che definiscono, appunto, chi vive la realtà e sa interpretarla. E che
agisce, anche, questa realtà: cioè vi partecipa attivamente impegnando se
stesso, la sua persona e la sua “reputazione” al servizio di una o più cause.
Cioè non
basta essere intelligenti per essere intellettuali; occorre essere impegnati,
quindi acquisire visibilità - volontaria o involontaria – e soprattutto essere
riconosciuti dagli altri. E’ forse una forma sofisticata di popolarità, e non
saprei dire, in questi tempi internettiani, se la quantità degli estimatori
conti quanto la qualità.
Ma il punto è sempre quello: voler essere
intellettuale, colto, parafrasando Parks, “vincente”. Una bella rivincita, per
la parola e anche per il suo significato, nei confronti di chi associava il
concetto a situazioni di nicchia, di spocchia, e un po’ anche di sfiga.
Non è più
un insulto (“Brutto intellettuale che non sei altro!”, settembre 2012), ma un
desiderio trasversale, che colpisce politici, professionisti, accademici,
operatori dell’informazione e perfino semplici bloggers, perché, naturalmente,
la contiguità con le parole rappresenta un rischio altissimo. Ecco che molti hanno "visioni" generali, progetti, passioni, pensieri e parole.
Certo, il rischio è la tuttologia, ma nel complesso non è un
atteggiamento che mi sento di biasimare, perché implica il desiderio di essere
apprezzati per la propria personalità e, se è vero che la scrittura è
competizione e si scrive “per vincere” (ma non sempre e non comunque, io
credo), si tratta comunque di una sfida al rialzo. E di questi tempi è un
sollievo.
Ecco che
tutti vogliono (vogliamo? non so), scrivere per essere letti, di più , per
essere apprezzati, condivisi, perfino (qualche volta, poco poco però)
contraddetti. I nuovi media che permettono ampia diffusione ai contenuti di
ognuno (non necessariamente scritti ma anche visivi, musicali ecc.; tutto può
avere un significato rilevante) hanno un ruolo micidiale nella competizione e
nella costruzione della propria immagine “intellettuale”.
E nella
gratificazione che si può ottenere, il famigerato “essere amati” (cioè
apprezzati, citati, coinvolti ecc.).
Anche
perché il cosiddetto intellettuale o sta nel mondo, con gli altr*, o non è.
Insomma,
tutto normale e legittimo, semplicemente registro la nuova e forte valenza
positiva che si attribuisce a un termine e/o una identità che prima indicava,
forse, soprattutto qualcuno con la testa per aria, poco calato nella realtà, e
a cui oggi si riconosce nuovamente un valore importante di interpretazione del
mondo.
Posso
dirlo? Era ora.
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