«Non si può fare tutto. Solo Wonder
Woman può, perché è un fumetto». Insomma, smettiamola finché siamo
in tempo. Tanto più che gli uomini sono tutt’altro che perfetti, e se ne
fregano.
La giornalista del Corriere scrive l’ovvio, almeno
per me che sono una casalinga imperfetta e nemmeno mi sogno di fare il planning
settimanale dei pasti, comprare la frutta e la verdura a km. zero per poi
cucinarla il più salutisticamente possibile, pianificare la mia giornata in
base allo stiraggio delle camicie o alle lavatrici da stendere dopo aver
consultato compulsivamente il meteo.
E’ però vero che confondere la capacità di essere multitasking con l’onnipotenza è una
caratteristica femminile. Quando poi si raggiungono posizioni di vertice,
ovviamente la questione peggiora notevolmente. Ma la “vita ad incastro”,
prerogativa delle donne di qualunque reddito e stato lavorativo, credo sia solo
parzialmente voluta- e di conseguenza i ragionamenti sul dover rallentare
dovrebbero tenere conto di molte variabili: attitudini personali, volontà,
soprattutto inclinazione esistenziale verso
dimensione o l’altra, o entrambe.
Poiché mi è chiaro che tecnicamente una donna può fare tutto tranne,
ovviamente, la pipì in piedi, si tratta di verificare cosa vorrebbe fare e
come, e soprattutto se le condizioni intorno glielo permettono come accadrebbe
con un uomo, o se il suo è un destino segnato che porta dritte all’esaurimento
nervoso. Fortuna che i miei non sono i soliti deliri femministi, ma sono
confortati da alcune ricerche recenti.
In Italia, la spesa pubblica nazionale per aiutare
le mamme lavoratrici a crescere i figli è pari a 20,3 miliardi, equivalente
all'1,3% del Pil e inferiore del 39,3% rispetto alla media dei 27 Paesi Ue
(dati Confartigianato).
Cioè, una
donna lavoratrice con figli starebbe meglio e vivrebbe meglio la sua vita in
qualsiasi altro paese europeo rispetto all’Italia. Forse il punto è proprio questo: non si tratta
tanto di essere superdonne e/o di darsi dei limiti (cosa comunque corretta), ma
di gestire e superare i limiti oggettivi che una società ostile alle donne
lavoratrici con famiglia pone continuamente sul loro cammino quotidiano. I casi
“classici” abbondano: dalla 32 enne
appena sposata alla quale vengono chiesti in fase di colloquio i suoi
intenti riproduttivi e alla quale viene preferito un candidato uomo senza
famiglia e con meno esperienza, alla 40enne a cui propongono l’esodo
incentivato perché madre e “probabilmente” desiderosa di stare a casa con i
figli.
Questa non è solo miopia aziendale: è anche
cultura. E convinzione acuta e
generalizzata che i figli siano un problema, un pò per la mancanza pubblica
di servizi e generale di mentalità, che garantiscano alla prima lavoratrice di
rientrare al lavoro senza intoppi dopo una eventuale maternità e alla seconda
di essere considerata una risorsa comunque, anche part-time o ad orario ridotto
o telelavoro o che dir si voglia.
E il percorso a lungo termine? Una donna, in
generale una famiglia, prima di fare un secondo o terzo figlio ci penserà
parecchie volte, e in tanti ci hanno già pensato troppo: infatti la ricerca
Censis Gli anziani, una risorsa per il Paese, gli over 65 nel 2015
raggiungeranno per numero la popolazione tra 15 e 34 anni: 12 milioni e
mezzo di persone.
E quindi: la situazione porta quasi 1 donna su 2
(46,5%) all'inattività; l'Italia mantiene tuttavia la leadership in
Europa per il maggior numero di imprenditrici e lavoratrici autonome:
1.524.600, pari al 16,3% delle donne occupate nel nostro Paese, rispetto alla
media europea del 10,3%. Forse perché “chi fa da sé fa per tre”? Chissà.
Forse,
allora, quella sindrome da “wonder
woman” non è del tutto ingiustificata, ma in qualche modo frutto della
necessità di far quadrare tutto e, forse, anche di un senso di “ogni
lasciata è persa”: e non è necessario essere consigliere di
amministrazione di Goldman Sachs, esperte di antiterrorismo di Obama o a capo
di un sindacato o un partito politico, ma semplicemente donne che vogliono
stare nel mondo, oltre che in famiglia.
Cosa c’è che non quadra tra questi due aspetti
della situazione (non amo particolarmente il termine “condizione”) femminile,
la mancanza di un’occupazione per quasi metà delle donne italiane e la vita a
incastro per l’altra metà che lavora?
Intanto, il fatto che non è un problema delle donne ma dell’intera società. Qualsiasi
legislatore o policy maker che sappia
collegare i dati alla realtà, o ancora meglio che viva nella realtà, capirebbe che sfavorire l’occupazione femminile
è deleterio non solo per il Pil ma per lo sviluppo globale di un Paese: meno
donne al lavoro uguale meno servizi, meno impegno dello stato nel garantire
sostegni alle famiglie (si chiamano asili, scuola, doposcuola, pediatri,corsi
di recupero ecc.) e quindi solito welfare scaricato sulle famiglie, meno
competitività in un mercato del lavoro ancora molto rigido rispetto agli orari
e alle forme di lavoro rispetto agli altri Paesi, eccetera.
Non è questione di “parità”, di beneficenza né
magnanimità, insomma, ma – ripeto- minima intelligenza. Ce l’abbiamo? Va beh,
ho capito, la domanda è retorica.
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