L’identità, questa sconosciuta. Nella Sardegna del 2013 è ancora grande la
confusione sotto il cielo quando ci si accosta a questo affascinante concetto,
insieme personale e collettivo, che racchiude infinite potenzialità –culturali,
politiche, perfino economiche- e che altrettanto infinitamente è spesso comunicato
in maniera caricaturale o obsoleta.
Caricaturale,
laddove la percezione di se stessi e degli altri come facenti parte di uno
specifico insieme (territoriale, culturale, linguistico) si accontenta di
esprimersi attraverso i soliti stereotipi della bandiera dei Quattro Mori, del
bronzetto nuragico, del mare bellissimo, della “Sardegna è il paradiso”, insomma.
Se l’indagine, il tentativo di afferrare e rendere concreto e perfino
“utilizzabile” questo misterioso sentimento, si ferma qui, allora pecca anche
di obsolescenza. E la Sardegna non se lo può permettere, non più.
Il documentario “Hope/le nuove migrazioni” di Gianluca Vassallo-Alex Kroke, girato a New York, indaga proprio la
possibilità che la sardità sia una specificità vincente anche in termini concreti,
di realizzazione professionale e personale. Non sfugge però il fatto che i
protagonisti la dispieghino, questa identità sarda, fuori dalla Sardegna. Pare
evidente, quindi, che la caratteristica di “sardità” risalti – e funzioni-
soprattutto fuori dall’isola. I perché sono molteplici, e sospetto che ognuno
potrebbe dare risposte differenti: perché siamo pocos, locos y mal unidos, o perché invidiosi, o chiusi, o afflitti
da senso di inferiorità e via banalizzando. Chiunque abbia una minima
esperienza della società sarda di oggi- se non altro perché la abita- saprà
invece che questa caratteristiche da romanzo fanno parte, appunto, di una
precisa mitologia della sardità al pari della leggendaria ospitalità o della cosiddetta
balentìa.
I problemi sono
altri, concreti e molto simili (uguali?) a quelli del resto d’Italia: un sistema
clientelare in tutti i settori che stronca anche la resistenza dei più tenaci,
una scarsa attenzione all’istruzione e alla cultura che produce l’effetto
valanga della dispersione scolastica e delle occupazioni sempre meno
qualificate, una preoccupante tendenza alla ricerca dell’uomo o della donna
della Provvidenza, quello che troverà la soluzione per uscire dalla drammatica
crisi occupazionale ed economica che stiamo vivendo, con un tasso di
occupazione che è sceso infatti al 48,3% contro una media nazionale – tra le
più basse in Europa – del 55,7%. E un tasso di disoccupazione che è salito
invece al 18,6%, per complessive 552.000 persone occupate e 127.000 persone in
cerca di lavoro (Dati Istat sull’occupazione e la disoccupazione del II
trimestre 2013).
In questo contesto, la nostra “sardità” rischia di sembrare un semplice
esercizio intellettuale, un sentimento indistinto difficile da spiegare: e
perché dovremmo provare a farlo, specialmente in tempi difficili come questi in
cui la ricerca del “pane” ha sempre la prevalenza sulle “rose”?
Questo allo stato attuale, all’inizio di una stentata campagna
elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale della Sardegna e del Presidente.
Un elemento spesso richiamato da tutti i competitors è appunto il tema dell’identità sarda, che in queste
occasioni può diventare uno strumento eccezionale di propaganda e contribuire
significativamente ad attirare voti.
L’esempio più
clamoroso, in tempi recenti, della fascinazione esercitata dal concetto di
identità è ovviamente quello di Renato Soru e del suo movimento politico. Mai
prima di allora l’essere “sardo”, abitante della Sardegna, aveva avuto quell’appeal , quel significato di specificità
positiva che assumeva molte sfumature in cui le persone più diverse potevano
riconoscersi. L’occasione è andata sprecata ed è da considerarsi irripetibile,
per quell’insieme di fattori che rendono efficace un leader: carisma, successo personale,
fioritura di leggende intorno al personaggio, popolarità e, naturalmente, le
idee e il modo di comunicarle. Non è secondario il fatto che il Soru di velluto
vestito fosse e sia tuttora anche un imprenditore la cui azienda è per
definizione proiettata all’esterno, pioniera dei collegamenti con il resto del
mondo. Che fosse questa la cifra vincente del concetto di “identità sarda”,
perché moderna, “liquida”, flessibile, favorevole alle contaminazioni esterne?
Oggi quel patrimonio di valori, immagini, suggestioni sembra perduto, e i
tentativi di sollecitare negli abitanti della Sardegna il senso di appartenenza
alla propria terra- e quindi a desiderare per lei e per se stessi il meglio-
non sembrano sufficienti, incanalati come sono in uno schema binario di
presunta eccellenza (rispetto agli altri)/altrettanto presunta sfortuna atavica
e auto assolutoria.
Sono narrazioni, o forme di “storytelling”: siamo noi che parliamo di
noi stessi, e nel migliore dei casi contribuiamo a strutturare la nostra
identità di persone, per chi ci crede anche quella di “popolo”. Nel peggiore
dei casi, invece, ce la cantiamo e ce la suoniamo da soli, perché la sensazione
è che non si sia ancora riusciti, noi abitanti della Sardegna, a capire chi
siamo e soprattutto cosa vogliamo fare. Inutile portare quella bandiera con i
Quattro Mori in giro per concerti; ingenuo spacciare la birra Ichnusa come
orgoglio regionale.
L’essere sardi passa oggi per la tutela del territorio, le specificità
produttive e culturali, l’attenzione alla lingua sarda,la nostra storia, il turismo
sostenibile e la mobilità, la comunicazione interna e verso l’esterno del
nostro sentire.
Il nostro agire intellettuale deve orientarsi alla diffusione di massa
dell’importanza di questi e altri elementi, per cambiare concretamente la
situazione della Sardegna. Deve contrastare la semplificazione estrema e spesso
folclorica del concetto, analizzarlo nel nostro tempo, comunicarlo con nuovi
linguaggi che favoriscano una presa di coscienza il più ampia possibile. Il
tutto in una ottica assolutamente inclusiva, perché sardi lo si può perfino
diventare, per scelta.
Le nuove tecnologie possono aiutarci, gli incontri pubblici sul
territorio anche, una maggiore e più costante attenzione dei media tradizionali
sarebbe importante.
Tutto questo è
identità, oggi, tutto insieme in una ottica di molteplicità di azioni, lasciando da
parte per un momento le dispute filosofiche e un tantino archeologiche su cosa
(che poi di solito è un chi) abbia la
priorità. Il senso della sardità e
dell’appartenenza non può, oggi, essere disgiunto dal resto del mondo, con cui,
volenti o nolenti, comunichiamo e interagiamo, che ci riguarda e al quale è
corretto, conveniente, salutare, insomma: giusto, proporci. Perché nessun uomo
–e nessun “popolo” – è un’isola, e non dobbiamo esserlo neanche noi.
Francesca
Madrigali
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