La mia generazione/ Quando eravamo re.



Sono intorno a noi, i reduci di quel tempo dorato in cui molti “erano re” (when we were kings è l’evocativo titolo di un film su Muhammed Ali).
Negli anni Novanta- non la preistoria, giusto 20-15 anni fa- l’appartenenza alla media borghesia garantiva non solo un buon tenore di vita, ma anche la certezza granitica che lo si sarebbe tramandato alle generazioni future, quasi fosse un diritto di nascita. 
Ovviamente non è stato così, e noi ragazze e ragazzi di quel tempo, oggi donne e uomini assai più realisti dei nostri genitori (non scrivo “pessimisti” perché credo sia una fase già trapassata), abbiamo già verificato che il mondo “grande e terribile” è assai diverso, multiforme, forse nemmeno peggiore ma semplicemente più complicato, di quello che pensavano i nostri padri. 

Abbiamo capito, quasi tutti, che da qualche parte c’è stato un cortocircuito fra aspettative e opportunità, fra il nostro impegno e i risultati, fra la nostra ingenuità e il tempo che passava, e forse anche fra le condizioni della nostra adolescenza e quello che sarebbe venuto dopo.
I più severi- io non mi sento di essere tra questi- imputano la disfatta al fatto che “abbiamo avuto tutto” e quindi non eravamo abbastanza “affamati e folli” per farci strada. Può darsi.
E’ anche vero che nemmeno le condizioni economiche favorevoli che in molti abbiamo sperimentato- ovvero poter studiare o aprire una attività, in qualche caso viaggiare o imparare le lingue, o qualsiasi cosa che abbisognasse di un investimento economico da parte delle nostre famiglie- ci hanno consentito di raggiungere i risultati attesi.
E’ un fatto: c’è una sproporzione enorme tra gli sforzi a monte i risultati a valle. 

Eppure. Eppure è pieno di reduci che ancora si sentono un po’ parte di una sorta di aristocrazia decaduta ingiustamente. Hanno sessant’anni o giù di lì, ma anche quaranta, in qualche caso perfino vent’anni, a dimostrazione del fatto che la distorsione mentale di chi si sente diverso e migliore degli altri in base al denaro o all’appartenenza a un ceto sociale (come se fossero delineati bene come prima, come se dovessero esserci al solo scopo di rassicurarli) non conosce limiti di età nè di cambiamenti sociali ed economici epocali.

Quelli che “erano re” e non lo sono più di solito non possono accettarlo.
Hanno idolatrato, loro sì, per tutta la vita il dio denaro e di conseguenza la sua diminuzione o mancanza è un fatto profondamente ingiusto, un affronto personale e non un problema globale. Non interessa, a costoro, indagare i meccanismi, i perché, gli eventi, per capire cosa stia succedendo; non vedono al di là del loro naso, se ne fregano anche dei loro stessi figli, quasi fosse colpa loro se non riescono ad essere principi ereditari di un regno che semplicemente non esiste, o è esistito solo nel loro piccolo mondo antico, nel vicinato protetto.

Il rapporto dei reduci con il mondo “grande e terribile” è rarefatto, poiché se ne tengono accuratamente fuori; sono quelli che non guardano la televisione, non leggono i giornali, quelli che talvolta guadagnano migliaia di euro al mese o comunque uno stipendio che a molti sembra un miraggio, ma si dichiarano, ormai piano per non farsi sentire, “poveri”.
Perché pagano troppe tasse o hanno troppe rate, conseguenza del loro tenore di vita elevato. 

Sono quelli dell’accozzo come diritto naturale, del “mors tua vita mea” e della “tua ingenuità, bontà, del “tu giustifichi tutti”, mentre loro sono per l’ordine o per il disordine a corrente alternata, e soprattutto per l’ossessione del denaro, pur avendone sempre avuto a sufficienza. Cultori appassionati dell’accumulo, si ritrovano in un mondo che non capiscono, con figli che nel peggiore dei casi soffrono come loro per il loro scettro perduto, oppure si arrabattano come possono. In altri casi, invece, è la mitologia del denaro facile, furbo, che presuppone che gli altri siano, semplicemente, dei coglionazzi. Perchè hanno idee diverse, sogni piccoli e normali, non sono affetti da megalomania e da ambizioni stellari (in molti casi, peraltro, penosamente ingiustificate).
Pensiero trasversale, senza età, sub-culturale e pure un po’ sub-umano, diciamo.

Non credo di essermi ancora ripresa dalle intercettazioni telefoniche delle Olgettine (ve le eravate dimenticate?), che definivano chi lavora “uno sfigato” o giù di lì.
In un Paese in cui lavorare è diventato difficile da almeno un decennio, esiste e resiste il mito del “[qualsiasi cosa] sempre meglio che lavorare”. Contraddizioni del nostro tempo, che ha sì prodotto una generazione sfigata, ma anche un sentimento resistente di occasioni- e talvolta privilegi - perduti, quelli di chi si sente, appunto, come un re detronizzato ingiustamente.

E invece scoprono, e scopriamo, che quel meccanismo inceppato in un momento a caso negli ultimi vent’anni ha livellato tutti verso il basso: quelli che si credevano re e non hanno ancora capito che non lo sono più, e purtroppo anche quelli che ai titoli nobiliari non sono mai stati interessati.
E che gradirebbero, comunque, un po’ di silenzio, se non altro per non perdere la concentrazione mentre fanno, loro sì, mentre quegli altri si lamentano.

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