Un po’
l’avevamo intuito, che c’era e c’è qualcosa che non va in questi tempi
beffardi, “liquidi”, in cui ogni scelta sembra essere quella sbagliata.
L’indicatore del malessere della mia generazione, l’abbiamo detto e ripetuto
fino alla nausea, sta nel non avere, spesso, un posto nel mondo. Cioè un
lavoro, il ruolo sociale che ne consegue, in definitiva: una identità. Una delle prima domande che ci vengono poste
in età adulta è infatti: “cosa fai?”, inteso nel senso di lavoro, di attività,
di “fare” delle cose. Possibilmente retribuite.
Per i
nostri genitori e prima i nostri nonni il “fare” era rappresentato dall’
“impiego”, il lavoro sicuro contrapposto ad altre attività stravaganti. Era una
questione di scelte, di non incappare nella bizzarria di qualche nipote che
voleva fare l’artista, o magari di ritrovarsi un figlio che riusciva a “farsi
da sé”.
Questo, fino ai nostri genitori, figli di persone che avevano fatto la guerra,
talvolta la fame, e che lavoravano vedendo dei risultati concreti.
I miei nonni - 3 su 4 emigrati in Sardegna da altre regioni dopo la guerra, con
neanche gli occhi per piangere- hanno lavorato duro, comprato case, fatto
studiare i loro figli all’Università e fatto in tempo a vedere la
disoccupazione della nipote più grande.
Poiché
siamo tutti programmati anche secondo le nostre esperienze, e poiché l’
“ascensore sociale” è generalmente riconosciuto come un indice di progresso
della società, era logico che si aspettassero qualcosa di ancora migliore per i
figli dei loro figli. Ops!
Qualcosa
è andato storto, da qualche parte in diversi Paesi.
L’articolo de L’Espresso vale la pena di essere
riportato integralmente, perché l’impietoso grafico mostra chiaramente quale
sia la portata economica e sociale della copresenza di fattori negativi quali
la disuguaglianza dei redditi e l’immobilità sociale. Una riga che sale verso
l’alto, verso l’Italia, certifica quello di cui già ci eravamo accorti: che
siamo al prima generazione che sta peggio dei suoi padri, e talvolta perfino
dei suoi nonni. Il fattore “ereditario” pesa tantissimo nel destino delle
persone e non è mitigato dalle possibilità dell’istruzione, tantomeno della
libera iniziativa.
Il “sogno americano” è tramontato anche in America, mentre in Italia non c’è
proprio mai stato, perlomeno in quella accezione mitologica: d’altronde, noi
siamo il paese della “famigghia”, della conoscenza, della cooptazione come
metodo di reclutamento lavorativo.
Ci
saremmo accontentati di un ascensore funzionante, anche per dare un senso al
lavoro di chi ci ha preceduti, e ci ritroviamo in un palazzo che non ha nemmeno
le scale.
Mi si
dirà: esageri, portandomi ad esempio la durezza di certe vite contadine, di comodità
e possibilità che noi abbiamo avuto facilmente, quasi come ci fossero dovute,
mentre a loro erano negate, spesso ignote. La differenza sta, credo, nel fatto
che comunque al lavoro di quei nonni (e quei padri) ha corrisposto un
miglioramento socio-economico per le generazioni future, che con noi si è
interrotto.
Sui perché possiamo interrogarci ampiamente, tanto il tempo ce
l’abbiamo.
L'Italia è ingiusta e pure immobile
di Roberta Carlini
Ormai siamo tra i Paesi che hanno maggiori diseguaglianze nei
redditi. E, contemporaneamente, fra quelli dove c'è la minore mobilità sociale
tra una generazione e l'altra. All'estremo opposto,per capirci, stanno gli
Stati scandinavi
(30 agosto 2013)
C'è un'Italia al top, che se la batte con Stati Uniti e Gran
Bretagna. Ma non è una gara tanto bella. L'Italia infatti si trova al vertice
di quella che con genio comunicativo Alan Krueger, capo degli esperti economici
di Obama, ha definito "la curva del Grande Gatsby": un'immagine
plastica di quanta eguaglianza c'è nelle nostre società, e quanta mobilità c'è
tra i vari gradini della scala sociale.
Nel grafico, elaborato dall'economista canadese Miles Corak, l'asse orizzontale
indica la diseguaglianza tra i redditi, quello verticale la mobilità di reddito
tra generazioni: in sostanza, il rapporto che c'è tra gli stipendi dei padri e
quelli dei figli. Andando dal basso verso l'alto, aumenta l'immobilità. Andando
da sinistra a destra, cresce la diseguaglianza.
Un paese può essere molto diseguale, ma avere
una forte mobilità tra generazioni: il figlio del povero può farsi strada e
diventare ricco. Era la base dell'American Dream, amaramente smentita dalla
curva di Gatsby: non a caso entrata nei report del consiglio economico per
Obama, e ora oggetto di un dossier del Journal of Economic Perspectives.
Dove si legge: in paesi come Usa, Gran Bretagna e Italia almeno metà dei propri
vantaggi economici viene dal fattore-famiglia, che invece pesa solo un quinto
sui figli di norvegesi, danesi, finlandesi. Il consiglio è di correre ai
ripari, investendo alla grande sulle politiche, come quelle scolastiche, che
riequilibrino un po' i pesi tra i figli. E da noi? Arriverà la discussione
sulla curva del ricco e raffinato Gastby anche nel paese dei milionari senza
gusto?
Etichette: ascensore sociale, curva di Gatsby, disoccupazione adulta, disuguaglianze, francesca madrigali, Journal of Economic Perspectives, L'Espresso, la mia generazione, lavoro, mobilità sociale