E'straordinario osservare come la
Sardegna viene raccontata,"narrata" proprio, in modi diametralmente
opposti. Il realismo piu'crudele vede la poverta'in aumento,la disoccupazione
adulta molto piu'elevata dei dati ufficiali,i giovani con la terza media che
occupano le mattine al bar. Poi c'e'la narrazione
mitologica, incoraggiante,spesso "aneddotica",nel senso dell'
"uno su mille che ce la fa":l'imprenditore del colpo di genio,il
pastore innovatore, l'azienda virtuosa.
Tu chiamalo, se vuoi, “storytelling”: siamo noi che parliamo di noi stessi, e
nel migliore dei casi contribuiamo a strutturare la nostra identità di persone,
per chi ci crede anche quella di “popolo”. Nel peggiore dei casi, invece, ce la
cantiamo e ce la suoniamo da soli, perché la sensazione è che non si sia ancora
riusciti, noi abitanti della Sardegna, a capire chi siamo e soprattutto cosa
vogliamo fare. Inutile portare quella bandiera con i Quattro Mori in giro per
concerti; ingenuo spacciare la birra
Ichnusa come orgoglio regionale.
L’imprenditrice che utilizza in modo intelligente la lana di pecora e il
pastore che produce il pecorino senza lattosio sono felici esempi di
lungimiranza, dei casi, appunto.
La maggior parte dei sardi, giova ricordarlo
per amore di realtà, non ha la vocazione dell’imprenditore, non vuole o non ha
di che lavorare nei settori tradizionali, così come non campa affittando la “villetta” al
mare.
L’altra narrazione, stavolta falsissima, è quella del supporto
all’iniziativa privata (con de minimis,
prestiti agevolati, bandi di ogni genere, tutto sotto lo slogan “se il lavoro
non c’è, bisogna inventarlo”! sì, adesso siamo tutti Archimede Pitagorico: e
creiamo lavoro e mercato dove non ci sono.)
Lo scenario dei casi felici è
però quello di un’isola impoverita, che non lavora, dove il turismo delle
seconde case e dell’impostazione spenna-turista per tre mesi l’anno agonizza e
nonostante ciò è ritenuto l’opzione più valida, dove la terza media (così come
nel resto d’Italia) è il titolo di studio più diffuso.
E perché dovremmo
studiare, visto come andrà a finire? Questa è l’altra preoccupante narrazione
che va diffondendosi: la convinzione, avvalorata da ciò che abbiamo visto
succedere negli ultimi vent’anni per la generazione di mezzo e che i più
giovani hanno osservato, che la vita sia un eterno presente. E che quindi il
lavoro stagionale, il tirocinio che ci permette giusto di fare shopping dai
cinesi ai saldi, o al contrario di risparmiare per la Vuitton e la Hogan, vada
bene, insieme, s’intende, alle nostre meravigliose spiagge.
Capacità e volontà, stereotipi e
attendismo, di qualcuno che “ci pensi lui/lei”:
sono tutti racconti "identitari",perche' tutto e il contrario
di tutto puo' succedere sotto il nostro cielo,e tutto ci riguarda: sempre pero'
eh,mica solo in campagna elettorale. Il problema è che non c’è un progetto
globale, una idea di Sardegna che sottintenda alle visioni funebri e negative
di chi dice solo “no” perché tutto è impossibile in Sardegna, o al contrario di
chi cerca con il lanternino degli elementi che rafforzino il sentimento di
orgoglio di un “popolo” diverso dagli altri (chi? Quali? Dove? In quale
mondo?).
Mentre siamo occupati in questo bipolarismo un po’ clinico e un po’ filosofico,
il tempo passa e purtroppo non è poeticamente subito sera, ma subito elezioni
regionali.
Etichette: disoccupazione adulta, elezioni regionali Sardegna, francesca madrigali, identità sarda, la magnifica ossessione, la mia generazione, sardegna, storytelling