Condividere è comunicare, e ogni
cosa che comunichiamo parla di noi, di come siamo fatti, della percezione che
abbiamo delle cose. Nel mondo a misura di smartphone basta poco perché una
informazione, ancora più una immagine, diventino “virali”, cioè circolino e si
diffondano con progressione esponenziale.
Questo meccanismo funziona,
ovviamente, se noi per primi condividiamo quello che vogliamo sia visto e letto
dagli altri, tipicamente sulla nostra bacheca di Facebook, ma anche su siti e
blog. E funziona anche per le cose brutte, molto brutte, anche quelle che
vogliamo in qualche modo stigmatizzare o discutere perché non le approviamo.
Intanto, però, le abbiamo postate. Altri le hanno viste, e magari le
condividono. Una schifezza che leggevano in dieci o cento, nel giro di poche
ore, può raggiungere gli occhi di mille persone, eccetera.
Nel mondo parallelo- eppure vero-
di un social network, ad esempio, ci si può imbattere- perché è così che
accade, noi scorriamo le notizie e vediamo tutto ciò che i nostri contatti
postano, poi sta a noi, eventualmente, approfondire o meno- in immagini
raccapriccianti di violenza sugli animali, in immagini para-pornografiche
soprattutto femminili, in vignette insultanti, oppure, sempre più
frequentemente, in grafiche “ad hoc”, che in tempo reale rispetto all’accaduto
riportano simboli e frasi, con un effetto di morbosità devastante.
Ricordo, ad esempio, che dopo le
intercettazioni di qualche mese fa su alcuni individui appartenenti all’estrema
destra che pianificavano aggressioni alle studentesse ebree all’Università,
cominciò a girare su Facebook una sorta di banner con le frasi che i
disgraziati si scambiavano: lo scopo era quello di condannare l’accaduto, ma
l’effetto era una violenza ripetuta e di una morbosità sconvolgenti. Così anche
le foto degli animali impiccati o torturati non servono a sensibilizzare sul
fenomeno – gli psicopatici esisteranno sempre, purtroppo-, ma generano angoscia
e una sensazione intollerabile di ennesima violazione su quelle creature.
Non condividiamoli, per carità,
non aumentiamo l’effetto domino della violenza verbale e fisica; se vogliamo
portarli a conoscenza degli altri, filtriamoli attraverso le nostre parole,
raccontiamoli ma non mostriamoli come
se fossero un adesivo da appiccicare al cofano della macchina.
L’occhio è più
veloce del cervello, e quelle immagini o parole violente ci entrano dentro e in
qualche modo rimangono. Non c’è utilità, neanche di cronaca, nel riportare le
esatte parole da film porno che compongono l’immaginario di un potenziale
stupratore, ma solo morbosità, e se certa stampa non se ne cura, almeno
facciamolo noi. Ancora diverso il caso degli
articoli-immondezza, di solito a base di sesso o deiezioni umane: sono
non-notizie, non-argomenti, e come tali pensiamoci bene prima di cliccarci
sopra. E’ una perdita di tempo, e spesso un vantaggio per chi vuole raggiungere
il suo quarto d’ora di celebrità a colpi di cazzoculofigatette.
Cerchiamo, in questo mondo ultraveloce che ci bombarda di stimoli, di praticare
comunque una sorta di ecologia della comunicazione, insomma: perché le parole
sono ancora, e sempre, importanti.
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