La mia generazione: quelli che fanno cose, vedono gente, e coltivano le rose.

La mia generazione: quelli che "lavorano", ma fra virgolette.
Perchè ad un impegno che costa 10 corrisponde un ritorno economico pari a 5, se va bene. Il resto, ci dicono da dieci anni circa, "è un investimento". Per ora, abbiamo investito energie tali e tante da far decollare un missile nucleare (e non cederemo alle facili ironie su dove è finito). Dunque, qualcuno lavora veramente e altri, in buona sostanza, "fanno cose vedono gente", perchè capiscono che l'inattività rassegnata è come la morte, e perchè spesso hanno in sè un nocciolo duro di resistenza e di passioni che non li abbandonano.

I più onesti lo dicono apertamente, che “galleggiano”, guadagnandosi con la loro sincerità disarmata la mia infinita stima e il senso di solidarietà che nasce dal sollievo triste di sapere che non sei la sola a trovarti in un impasse che ogni volta è diverso. 
E’ il bello della mia generazione: ogni tanto esci dalle virgolette e lavori seriamente, nel senso che all’impegno di energie e tempo corrisponde un guadagno e, a seconda della durata, una certa sensazione di serenità. E’ in questi casi che si abbassa la guardia e si smette di cercare un altro lavoro, perché si ha come la sensazione di potersi riposare un momento. La tranquillità è però, di solito, ad orologeria, e quando finisce ci si ritrova in un guado nuovo. 
Poi ci sono quelli che tacciono, comprensibilmente, perché la perdita del lavoro è sempre una ferita dell’identità, e siccome in questo nostro buffo mondo noi siamo – anche- quello che facciamo, ecco che non potersi più definire in qualche maniera può risultare destabilizzante. Naturalmente, è sempre meglio fare cose e vedere gente piuttosto che rassegnarsi all’impasse, anche e soprattutto se questo dura a lungo; il farmaco salvavita è rappresentato dall’avere una passione, un desiderio, un impulso a fare ciò che si ama a prescindere, anche se intanto il tempo passa e non accade altro.  Anche se a volte veniamo sfiorati dal dubbio che sia stato tutto un sogno prima, e un incubo ora: in mezzo, qualcosa è andato terribilmente storto prima che ce ne accorgessimo (ma poi, è possibile fermare un treno in corsa?). 
Mi sembra che aumenti moltissimo, nella mia generazione, la divaricazione fra ciò che si fa e ciò che si vorrebbe fare, e parallelamente la separazione nettissima fra ciò che si dovrebbe fare per mangiare e ciò che si vorrebbe fare subito dopo per vivere in armonia con la propria natura e le proprie inclinazioni. 
Gli antichi romani avevano ben chiara la distinzione tra lavoro per la necessità (operae), assegnato agli schiavi, e lavoro come libera espressione delle capacità dell’uomo (opus), a cui infatti si dedicavano anche gli uomini liberi.  
Oggi è ancora così: qualsiasi lavoro va bene, mi dice in sostanza una psicologa precaria che faceva la commessa senza lamentarsi, o una cantante lirica che guarda con interesse un concorso per impiegati amministrativi.  Non è più questione di pane e rose: soltanto la presenza del primo garantisce di poter coltivare le seconde con serenità, cioè di dedicarsi al proprio opus, alla propria essenza umana.
E se non c’è neanche l’opportunità di rimediare una qualsiasi operae, come sta succedendo alla mia generazione? Le strade sono due: soccombere –ma è impossibile e contro natura arrendersi a quarant’anni- o continuare, in direzione ostinata e contraria ad ogni buon senso e risparmio energetico (di forze fisiche, sanità mentale, equilibri personali e familiari, e non ultimo di risorse economiche), a coltivare una piccola aiuola di rose.

Tanto, vorrei dire a quelli della mia generazione, non c’è per la maggior parte di noi neanche l’imbarazzo della scelta fra operae e opus, fra schiavitù e libertà vera.

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