(11 marzo 2013, un articolo scritto a quattro mani con l'amico e collega Walter Falgio)
Con il social network siamo tutti più liberi, ma anche
no. Perché in ufficio, a scuola, al ristorante con gli amici o a tavola
con la famiglia forse non ci esprimeremmo con quella velocità tranciante
e definitiva che è propria di Facebook (massacro dei puntini di
sospensione e strafalcioni a parte). E ci siamo mai chiesti quali
effetti provochi ai nostri figli il compulsivo (e invasivo) ditino sullo
screen?
Siamo tutti più cauti di persona, eppure così ansiosi di auto
rappresentarci appena possibile, di solito sulla nostra piazza
preferita: il Web. Perché? Anche se il tema oggetto di diversi studi
psicologici è la motivazione che spinge ad iscriversi ai social network,
nello specifico Facebook (perché altri, come ad esempio Linkedin, sono
spiccatamente "professionali" e quindi delimitano severamente la libertà
di espressione, intesa in senso ampio, degli utenti), troviamo
affascinante la fase successiva, ovvero la rappresentazione di sé che
ognuno dà o vorrebbe dare.
Ci sono, è vero, molteplici usi della Rete e dei social network: possono
essere utilizzati a scopo esclusivamente ludico, casuale, oppure come
strumento promozionale (ma gli esperti raccomandano parsimonia e una
oculata gestione di sé, altrimenti il rischio è di incorrere in
spiacevoli e scontati effetti di saturazione).
E chi non ama i giochi, le applicazioni per di più moleste, e non ha una
attività da pubblicizzare? Vuole, forse, lasciare una traccia di sé. E
qui entrano in ballo diversi fattori, fra i quali la prudenza - forse
non tutti hanno capito che quello che scriviamo ci rappresenta, ci
identifica e ci fa ricordare dagli altri in un determinato modo - e la
capacità di "controllarsi" davanti all'infinità di possibilità che il
Web offre.
Anche i blog o i forum di discussione sono uno strumento di espressione,
ma è con Facebook che le possibilità sono cresciute in maniera
esponenziale: l'immediatezza dello "status" offre l'opportunità di
aggiornare la propria rete di contatti sulle proprie emozioni e
attività, in tempo reale, e di ricevere in tempi altrettanto veloci
gratificazioni o frustrazioni.
E' con questa funzione estremamente "veloce" che noi tendiamo a
diventare, come richiamato da un articolo recente di Roberto Cotroneo su
"Sette" del 15 febbraio, "collezionisti di emozioni". Scegliendone ogni
volta una diversa: la canzone che ci piace, la nostra opinione
politica, la battuta ad effetto, le dichiarazioni d'amore, di antipatia o
anche dei veri e propri micro-manifesti esistenziali.
E come tutti i
collezionisti, vogliamo aggiungere ogni giorno, più volte al giorno,
nuovi pezzi alla nostra raccolta. Che ha, certo, un filo conduttore: noi
siamo (o abbiamo scelto, consapevolmente o meno, di essere) caustici
fustigatori dei costumi altrui in servizio 24 ore al giorno, romantici
appassionati di gattini e aforismi celebri, spensierati "untori" di
qualsiasi non-notizia o peggio di immagini inopportune, o, talvolta,
davvero noi stessi, come siamo nella vita "reale".
Che poi, anche se può inquietarci, coincide con la nostra connessione
permanente. Perché l'onnipresenza sul web garantita dagli smartphone ha
eliminato la linea di demarcazione tra i due momenti. Possiamo essere
ubiquitari, stare con qualcuno "fisicamente" e anche "virtualmente";
possiamo addirittura sapere e far sapere a tutti dove siamo, unendo
definitivamente le due dimensioni, grazie alla funzione di
localizzazione del nostro telefono.
Il punto è: vogliamo farlo? E
perché?
Molte persone lo fanno in relazione a "bisogni di sicurezza (in Facebook
le persone con cui si comunica sono solo "amici" e non estranei); a
bisogni associativi (con gli "amici" posso comunicare, condividere foto e
scambiare opinioni); a bisogni di stima (si possono scegliere gli
"amici" ma io a mia volta posso essere scelto da altri. Per cui se tanti
mi scelgono accresco la mia autostima) e i bisogni di
autorealizzazione" (dagli studi di Ambrogio Pennati, e Samantha
Bernardi, psicologa. Questo il link: franzrusso.it.
Questa analisi sembra esagerata? A noi ha fatto riflettere molto,
soprattutto il cosiddetto "bisogno di autostima" e "autorealizzazione",
ovvero la necessità di conferme e la possibilità di esprimersi che
altrimenti, in molti casi, rimarrebbe confinata a una ristretta cerchia
familiare e amicale.
Siamo tutti, dunque, così fragili e bisognosi
dell'attenzione altrui? E il social network ha soltanto evidenziato
questo fenomeno del tempo moderno, o in un certo senso lo ha anche
provocato? La gratificazione che riceviamo on-line col fatidico "mi
piace" (adesso pure approdato alla prima coniugazione con mipiacciare)
appartiene alla stessa famiglia dell'appagamento quotidiano e tangibile?
(Forse gli stimoli biologici e i rapporti causa-effetto saranno pure
gli stessi, ma il peso specifico riteniamo non sia il medesimo). Ognuno,
ovviamente, ha la sua risposta: ma vorrebbe "condividere" anche questa?
***
Superata la fase dell'autoreferenzialità dove cerchiamo di rendere conto
solo a noi stessi, però e necessariamente, se ne spalanca sempre
un'altra. Quella della socialità (e della responsabilità) che per
fortuna ancora esiste attorno alla nostra vita. Ciò che noi siamo (o
vorremmo essere) nell'universo dei pixel non è soltanto affar nostro. È
anche affar loro. Ossia, prima di tutto, dei nostri figli e di chi ci
sta vicino.
Se noi impegniamo intere serate viaggiando tra il divano e il palmare,
possiamo pretendere condotte diverse dagli altri e dai nostri cari?
Anche in questo caso la risposta resta sospesa, ma alcune considerazioni
sono d'obbligo.
La dipendenza dei minori dai social network è oramai un tema caldissimo. È della fine del 2009 l'istituzione di un Centro del Policlinico Gemelli
di Roma per la cura di quella che di fatto è una patologia: la droga
da Rete. Gli scienziati la chiamano, Internet Addiction Disorder . Al
Gemelli, spiegano: "Nel 1995 lo psichiatra americano Ivan Goldberg ha
definito il concetto di Internet Addiction Disorder (IAD),
individuandone sette principali sintomi caratteristici quali: - il
bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore "in rete" per ottenere
soddisfazione; - la marcata riduzione di interesse per altre attività
che non siano internet; - lo sviluppo, dopo diminuzione o sospensione
dell'uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione,
pensieri ossessivi su cosa accade on-line; - la necessità di accedere
alla rete con più frequenza o per più tempo rispetto all'inizio; -
l'impossibilità di interrompere o di tenere sotto controllo l'uso di
internet; - il dispendio di grande quantità di tempo in attività
correlate alla rete; - il perdurare dell'uso di internet nonostante la
consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici
recati dalla rete stessa".
Chi non ha mai accusato almeno uno di questi sintomi, alzi la mano (ma lo faccia davanti a uno specchio).
Detto questo, ecco i numeri dell'Eurispes recentemente riportati sulla stampa:
"Il 12 per cento dei bambini tra i 7 e gli 11 anni naviga per più di 2
ore al giorno e il 15 per cento sta per lo stesso tempo di fronte ai
videogiochi. Tra gli adolescenti, dai 12 ai18 anni, le due percentuali
salgono addirittura al 40 e al 47 per cento. L'85 per cento dei giovani
tra i 12 e i 19 anni ha un profilo Facebook". Inutile dire che la
vigilanza, la partecipazione e l'esempio dei genitori, giochino un ruolo
fondamentale. Gli psichiatri riconoscono una particolare
predisposizione all'itinerare internettiano dei nativi digitali. Ma,
ovviamente: "Bisogna partecipare a quello che fanno online i bambini e i
giovani, comunque abituarli a esprimere le proprie emozioni, a non
chiudersi davanti a uno schermo, che rende la realtà distante e
ovattata". E il dottor Federico Tonioni, lo stesso che lavora al Centro
del "Gemelli", nell'intervista a Repubblica, chiosa: "Siamo tutti più
compulsivi, anche noi adulti siamo sempre attaccati a strumenti
tecnologici e abbiamo una minore disponibilità affettiva nei confronti
dei figli». Ne vale la pena? Condividiamolo.
(francesca madrigali e walter falgio)
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