Dunque, si voterà tra un
mese per le elezioni politiche. Le parole per dirlo sono sempre quelle:
l’Italia giusta, quella che sale, che non torna indietro, coraggiosa, che ama
perché l’amore vince sull’odio, eccetera. Poi ci sono gli apocalittici, come
l’ex comico genovese che oscilla pericolosamente fra l’odio e…l’odio.
I tempi interessanti (come
nella antica maledizione cinese) che stiamo vivendo producono anche un revival
di parole belle, ma spesso utilizzate in maniera strumentale, o simboli di un
passato diverso, in cui peraltro molte cose sono state possibili. Oggi, mi
sembra, è esattamente il contrario: lo spazio di manovra è limitato, le
speranze di un cambiamento indolore o perlomeno accettabile sono esigue. O si
continua su questa strada, o si fa la rivoluzione.
La rivoluzione (dal tardo latino
revolutio, -onis, rivolgimento) è un mutamento
improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il
sorgere di un nuovo modello. La rivoluzione può essere anche definita come un
cambiamento irreversibile dal quale non si può tornare indietro.
La parola un tempo
evocativa di chissà quali rovesciamenti dell’ordine costituito, adesso è di
gran moda. Non solo il magistrato Ingroia con la sua “Rivoluzione civile”, ma
anche l’ineffabile Samorì (chi?) e il suo MIR (Moderati In Rivoluzione, praticamente
una contraddizione in termini).
Tutti
hanno capito, cioè, che l’elettore desidera, ha bisogno, di qualcosa che gli
faccia credere in un mutamento radicale: perché così non si può andare avanti.
Però bisogna avere il phisique du role, averci vissuto dentro, alla situazione
che si vuole mutare, averli attraversati questi “tempi interessanti”. Sarà
anche per questo, forse, che la maggior parte dei politici o aspiranti tali sono
assolutamente improbabili quando pronunciano questa bella parola.
Stesso sex appeal lo
esercita la parola “identità”, particolarmente sentita e utilizzata in Sardegna
– spesso in maniera inopportuna quando non “truffaldina”- per raccogliere
sentimenti e voti attorno a un concetto così sfuggente e intimo che ancora,
dopo qualche decennio, non riesco a definire.
Ci riescono bene, però, gli
integralisti dei sentimenti altrui che sanno definire benissimo il concetto universale di appartenenza al luogo
di vita. Capita così che in Sardegna taluni guardino con sospetto altri perché
non parlano correntemente la lingua sarda. Mi è capitato personalmente di
esprimere dei dubbi a riguardo e di essere apostrofata con un messianico “ci
sei quasi, hai quasi capito, ma…”. Ma. Vabbè.
Infine, la “società
civile”, il nuovo mantra di chiunque. Ho appena sentito un ex magistrato
affermare con orgoglio che la sua lista è composta solo da “società civile”, la
stessa a cui si rivolgeva un esponente locale del PDL, quella invocata da tutti
come riferimento e luce guida dell’azione politica.
La “società civile”, cioè
noi, ha veramente un compito arduo anche stavolta: separare la pula dal grano,
orientarsi in un mare di parole spesso svilite del loro significato,
banalizzate a scopo elettorale, perchè è una competizione dove è indispensabile semplificare fino alla
banalità. E mentre lo scrivo, capisco che questo assalto alla lingua italiana è
un’altra delle cose che fanno di me una inguaribile qualunquista.
Etichette: campagna elettorale, elezioni 2013, francesca madrigali, identità, identità sarda, Italia, lingua sarda, rivoluzione, rivoluzione civile, società civile, voto