Noi Italia: poveri, inattivi e disoccupati (e pure un po’ asini).



Una indagine che si chiama “Noi Italia”, ha tutti i crismi dell’ufficialità Istat ed esce a ridosso delle elezioni politiche è oro che cola in una campagna elettorale. Vediamo cosa sapranno dirci i vari candidati a proposito degli 8 milioni di poveri, e di questi ulteriori tre dati importantissimi: 

1. La disoccupazione di lunga durata, che perdura cioè da oltre 12 mesi, ha riguardato, nel 2011, il 51,3% dei disoccupati nazionali. Cioè, più di metà delle persone che ha perso il lavoro negli ultimi mesi non ha grosse probabilità di trovarne uno in tempi brevi. Giova ricordare che non tutti godono di ammortizzatori sociali, oppure che questi sono ridotti a “una tantum”. Probabilmente, più un lavoro è precario o “scadente”, più si suppone che gli ex lavoratori vivano d’aria e di parole. Per fortuna, talvolta subentra una certa serenità, che però, proprio come il lavoro, è ad orologeria: poi passa.

2. Il 37,8% degli appartenenti alla fascia d’eta 15-64 anni è inattivo, e non cerca lavoro. Il dato fa il paio con quello del 2010 e due milioni di italiani “neet”, cioè not in education, employnment or training (non lavorano, non studiano, non si formano). C’entra la consapevolezza della difficoltà nel “mondo là fuori”? c’entrano le brutte esperienze, il far west della contrattualistica flessibile, c’entra la anormalità che è diventata normalità per cui si può e si deve gioire di un tirocinio “formativo” da schiavi? Ai posteri l’ardua sentenza: intanto, non fare nulla di se stessi causa dei devastanti effetti a catena, per cui altro che Europa, con i suoi 9 punti percentuali in meno (28,8%).  

3. L’abbandono scolastico: fra i 18-24enni il 18,2% ha lasciato gli studi prima di conseguire il titolo di scuola media superiore, e l'incidenza maggiore degli abbandoni si registra in Sardegna e in Sicilia, dove un giovane su quattro non porta a termine un percorso scolastico/formativo dopo la licenza media. 
 Purtroppo, nella nostra regione, il senso dell’opportunità e della convenienza rappresentata dall’istruzione è stata per anni soverchiata dalla convinzione che dove c’è il mattone l’economia gira, e di certo per fare il manovale non c’è bisogno di studiare. Idem per la galassia di corsi professionali: in Sardegna siamo tutti frigoristi, tornitori, estetiste e via intasando il “mercato”.  E’ evidente come io non mi sia ancora ripresa dallo sgomento provato nel ricevere, quando lavoravo per il Censimento 2011, tali e tanti questionari di nati negli anni 70, 80 e 90 con la sola licenza media, o nemmeno quella.

Questi tre punti si sommano e in un certo senso convergono nello scenario demografico: a inizio 2012, gli anziani erano 147 per ogni 100 giovani. Evviva, la vita media si è allungata! E mentre ci rallegriamo di questo, dimentichiamo che pochi giovani significa che già da qualche decennio si fanno meno figli, ed è un trend costante. 

D’altronde, come farli se la prospettiva è quella della disoccupazione di lunga durata o della precarietà eterna? E al di là degli spot propagandistici, chi propone cosa per modificare la tendenza demografica, al di là dei sostegni di “emergenza” alla famiglia in un Paese dove non ci sono ancora abbastanza nidi d’infanzia e tenere il bambino a casa fino ai tre anni e oltre è ancora socialmente “apprezzato”?

Certo, sono dati che non riflettono la società nella sua interezza (le persone non cercano lavoro per i motivi più disparati, e i numeri dei disoccupati sono spesso diversi dai numeri ufficiali, un po’ per la simpatica pratica del lavoro nero, e un po’ perché molti nemmeno si registrano alle Agenzie del lavoro, ad esempio). 

Ma sentire qualcuno che li conosce, e spiega anche a noi profani cosa significano oggi e in prospettiva, magari?

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