Oggi li ho visti preoccupati, i nostri media: gli
ultimi dati parlano del 37% dei giovani tra i 15 e i 24 (i veri giovani quindi)
che è disoccupato.
E’ allarme per il futuro, titolano i giornali, come se il
futuro di un Paese potesse essere letto solo nell’ottica di una fascia d’età
che è spesso ancora scolastica – o almeno così sarebbe sperabile, almeno fino
al diploma. Il fatto che i giovani non
trovino un lavoro (a quell’età, immagino, a media-bassa qualifica, anche perché
non hai potuto o voluto acquisire maggiori titoli di studio o esperienze
lavorative) è certamente un segnale sconfortante per il presente, e per capire
dove rischiamo di finire nei prossimi decenni.
Il tempo presente è però
caratterizzato dal drammatico fenomeno della disoccupazione “adulta”, over 40 e
oltre: i casi drammatici di ciò che resta dell’industria in Sardegna ne sono un
tragico esempio, e anche per gli altri
settori la situazione è dura. A chi si riferiva l’allarme povertà del Rapporto
UE 2012? Ai futuri poveri di domani, i 15-24 enni di oggi, o all’operaio ex
Alcoa che si è arrampicato su una torre minacciando di buttarsi giù al solito
grido di “noi vogliamo solo lavorare”? c’è un’espressione, in quei volti, che
non è solo richiesta di aiuto materiale, ma proprio lo smarrimento infinito di
chi non capisce come la storia sia potuta finire così.
Chi perde il lavoro oggi, o l’ha perso sei mesi fa,
semplicemente non ne trova un altro, punto. L’ignorante mitologia più cheleghista, qualunquista del “noi sì che ci rimbocchiamo le maniche”, nasconde,
oltre appunto alla crassa ignoranza di chi non sa di cosa parla, anche una
serie di luoghi comuni che risalgono almeno alla generazione precedente alla
nostra, se non addirittura a quella dei nostri nonni.
“Trovare il posto
(fisso)”, “impiegarsi”, “fare la gavetta”, sono tutte espressioni che avevano
un senso in un tempo lontano, che pare distante anni luce; sembrano giochi di
parole, espressioni curiose in un mondo che doveva riservare le “magnifiche
sorti e progressive” e oggi vede i 30 e 40- something
impantanati nella gavetta eterna di impieghi sempre diversi e sempre ad
orologeria, intervallati da periodi di inattività, tentativi di inventarsi
qualcosa, adattamenti alle mansioni più diverse, senza bisogno che qualcuno ci
ricordi che “un posto, anche precario, è meglio di nulla”.
Peccato che a forza
di precario qua e precario là, oggi sappiamo fare un pochino di questo e di
quello, ma solo ogni tanto, e la sensazione è che alla fine del percorso ci
ritroveremo con un beneamato nulla in mano, appunto. L’ "ascensore sociale”,
quello per cui la nonna ci raccomandava di “impiegarci”, per noi si è fermato
al piano terra, nonostante i nostri genitori ci abbiano dato tutte le
opportunità economiche. E il suo rovescio è lo sconfortante “sarebbe stato
meglio fare l’estetista, la parrucchiera, non studiare che tanto non serve a
nulla, ma cercare subito lavoro”, in una regione che soffre un tasso di
dispersione scolastica tragico: ancora ricordo lo sgomento, ai tempi del
Censimento 2012, nel visionare i numerosi questionari di nati negli anni 70 che alla
voce “istruzione” segnalavano la scuola media non terminata.
Qualcuno dovrà provare a raccontarla, questa mia
generazione stordita dalle cose andate storte: troppo studio e troppo a lungo,
o poco studio e lavori poco qualificati a vita; i lavori più disparati e poi un
curriculum disgregato, oppure una attenta selezione e comunque la
disoccupazione feroce a quarant’anni. Lavorare per se stessi: qualcuno ce la
fa, altri non rientrano nella spese o vengono fiaccati dalla burocrazia
soffocante. Il ritorno a casa, alla vita domestica e familiare per chi è
riuscito a farsela, oppure la decisione di emigrare, anche in età non più
verdissima. Tirare a campare con la disoccupazione o i lavori in nero, o non
fare più nulla come quei circa due milioni di adulti “neet” che non lavorano né
studiano.
Mentre penso dove posso collocarmi in questa
galassia generazionale, faccio un rapido giro degli amici precari, ondivaghi
come me, e apprendo che una di loro – psicologa che ha fatto call center e
commessa di abbigliamento- ha un contratto in scadenza a febbraio; uno tenta la
strada della libera professione, c’è poi la precaria da 10 anni nella pubblica
amministrazione (!), e quella che ha cercato di riprendere il lavoro precedente
ma niente, “c’è grossa crisi”. Poi ci sono quelli che non hanno trovato nulla, pur
cercando attivamente. Io stessa, guardando agli ultimi due anni con la loro
serie di pieni e vuoti, rabbrividisco.
Il lavoro è identità: nonostante
l’anelito filosofico e new age che ogni tanto (raramente) mi coglie, mi rendo
conto di essere strutturata così fin dalle fondamenta. Triste, visto che ognuno
di noi dovrebbe essere considerato per ciò che è e non per ciò che fa; ma le
due cose quasi sempre coincidono, prima nella testa delle persone e poi nello
sguardo degli altri.
Fra un mese e mezzo ci saranno le elezioni
politiche, poi chissà: a parte generici proclami di riforma, io non ho ancora
sentito una proposta sul tema, eppure qualcosa mi dice che in Italia i 30-40
enni non sono pochi. E votano (forse).Etichette: alcoa, allarme povertà, ascensore sociale, disoccupazione giovanile, elezioni 2013, francesca madrigali, identità, istruzione, la mia generazione, lavoro in sardegna, posto fisso, precariato, sardegna