E’ (un certo tipo di) giornalismo, bellezza! (sottotitolo “guardami: sono partita dal nulla e ora sono poverissima”).



L’indiscreto fascino di un tesserino da giornalista colpisce anche i cinici come me, che non esercitano la professione, e fanno altro. Perché per rispondere “giornalista”  alla domanda “che lavoro fai?” bisogna in qualche modo, farlo questo mestiere. E se non c’è modo di farlo, perché tutte le “fabbriche” sono chiuse, semplicemente non lavori, e quindi la risposta più corretta alla domanda è “dis/inoccupata” o anche, se mi gira male, “casalinga”. 

Il giornalismo, giova ricordarlo, è un lavoro, non una caratteristica della persona al pari dei capelli rossi o dei tratti caratteriali. Cioè, è giornalista chi cerca e trova le notizie, chi le sceglie, le interpreta, anche, chi dà una lettura del mondo complesso nel quale viviamo, chi seleziona e veicola la mole gigantesca di informazioni da cui veniamo bombardati giornalmente, dai più diversi strumenti di comunicazione- distrazione di massa. 
Fare il giornalista” non è uno status, quindi, a me sembrava pacifico. Poi ho partecipato a un workshop organizzato nella sede dell’Ordine regionale dei giornalisti e ho capito che non è ovvio per niente.

Ho sentito gli interventi iniziali, di giornalisti di una certa età ed esperienza che ricoprono ruoli prestigiosi nel suddetto Ordine o nel sindacato, e mi sono stupita (non tantissimo: quella dose di cinismo di cui sopra mi tutela dai peggioramenti della colite).
Il senso di disprezzo per chi cerca di fare il giornalista online, per i blogger, per il mondo della Rete in generale era più che palpabile: è stato manifestato chiaramente. Ovviamente mi è venuto in mente l’ottimo articolo di Vito Biolchini che poco tempo fa parlava di “barbari ai confini dell’impero”. Il paragone è assolutamente calzante. Singolare, quindi, che il titolo del workshop fosse “I giornalismi ai tempi di Twitter”, ma è probabile che fra gli organizzatori ci fosse qualcuno più pratico dell’argomento, forse un filo più consapevole della direzione che il resto del mondo, fuori da quella sala, ha preso già da un pezzo.

Sentire il rappresentante del sindacato spiegare le novità pensionistiche a un pubblico eterogeneo – c’erano studenti, freelance, addetti stampa, giornalisti disoccupati o diversamente occupati- mi ha fatto sorridere, perché non solo io e quelli come me una pensione non l’avranno mai, ma anche perché il sindacato, come l’Ordine, è abbastanza “non pervenuto” quando si tratta di indagare sul mistero ben poco glorioso dei lavoratori pagati pochi euro a pezzo, gli stessi pezzi che sono necessari per iscriversi all’Albo dei pubblicisti, per esempio. Il controsenso sadomasochistico di questi meccanismi pare ovvio, forse, a chi ha avuto un percorso lavorativo ortodosso: la giusta gavetta e poi la possibilità di svolgere il lavoro del giornalista, in diverse sfumature, e di essere pagato, come sarebbe normale.

Ascoltare Mario Sechi, direttore de “Il Tempo”, raccontare l’epopea dickensiana del suo percorso di vita e professionale, sintetizzabile in modo twitteriano (la sintesi è d’obbligo) in: “ero povero, il più bravo di tutti, mi sono fatto un culo così e ora dirigo un giornale mentre i giovani di oggi si lagnano e basta” (NB:130 caratteri spazi inclusi), peraltro sponsorizzando il suo libro, è stata una esperienza interessante e utile per confermare quello che avevo già intuito: una parte consistente delle persone vive, semplicemente, su un altro mondo. 
Il piccolo (a volte piccolissimo) mondo antico in cui, appunto, se eri bravo e lavoravi sodo alla fine raggiungevi il  risultato, e non dovevi emigrare all’estero per fare il cameriere, ad esempio.

Il mondo in cui i giornalisti lavoravano in un giornale cartaceo che veniva acquistato e letto dalla gente, che oggi ci pensa bene prima di spendere 1,20 euro, visto che c’è la Rete e soprattutto visto che la qualità del cartaceo è mediamente scadente. Il mondo in cui “se i soldi (per fare impresa) non ci sono, si comprano” , magari chiedendo 50 mila euro in prestito, così.
Peccato che la filosofia dell’ “uno su mille ce la fa” sia diventata quella dell’ “uno su un milione”, e gli altri si arrangino diversamente (per esempio alla voce “casalinga”, ma anche qualsiasi altro lavoro – pagato- va bene e fa guadagnare anche in salute). 
Io, d'altronde, non mi sento molto dickensiana, semmai mi riconosco in quella immortale citazione di Groucho Marx: “guardami, sono partito dal nulla e ora sono poverissimo”.

Comunque. Io ho già da un pezzo seguito le indicazioni di Sechi: ho un blog personale, uno smartphone, uso i social network, insomma sono moderna, come lui raccomanda. Ma nel mondo moderno – nel mondo reale, di oggi e del vicinissimo ieri- non sono sufficienti: questa è la notizia di cui non si è accorto un buon terzo dei presenti, sabato scorso.

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