Ieri sera ho visto Bellas
Mariposas di Salvatore Mereu, il film di cui parliamo tutti in Sardegna, come
non succedeva da molto tempo. Forse perché abbiamo voglia di vederci dall’esterno, o perché il racconto di
Sergio Atzeni è così poetico e straordinario che la sua traduzione in immagini
rappresentava una sfida assai ardua.
Il regista l’ha raccolta,e tutto sommato il risultato è buono, a patto
che si considerino le due opere come cose diverse tra loro. Chi non ha letto
Atzeni, infatti, ha dato un giudizio positivo del film, senza fare tutte le pinnicche che venivano in mente a me,
che ho molto amato le Bellas e il modo
in cui Atzeni le racconta. Il fatto che il film sia il più visto in sala forse significa,
ancora una volta, che siamo in tanti a voler parlare di noi, di come siamo
fatti, di come vediamo il mondo: sarà mica anche questa l’identità?
Agli altri italiani
consiglio caldamente la visione, perché sia il libro che il film vengono ben
prima di Acciaio, il libro di Silvia
Avallone che riprende anche lei il tema dell’amicizia femminile più forte di
tutto e della periferia, e poi perché di poesia ce n’è sempre bisogno.
La prima parte del film è
la più riuscita: bellissimo il monologo della ragazzina direttamente “in
camera”, bellissima lei in mezzo a una realtà cruda e senza sconti. A questo
proposito, uno dei protagonisti più efficaci del film è proprio il quartiere in
cui è ambientato: S.Elia, un classico esempio di architettura criminale.
La vita è così, sembrava
dire il racconto e anche il viso di bambina della giovanissima attrice
esordiente, ma per me sarà diverso. Lo spettatore (la spettatrice) si emoziona:
quanto vorrei che lo fosse davvero, piccola. Anche gli altri personaggi sono riusciti,
soprattutto i genitori di Cate, anche se non è l’aderenza alla realtà che va
cercata in Bellas Mariposas, quanto piuttosto la traccia poetica dentro i
personaggi (penso alla vicina di casa, alla ragazzina sventata che si apparta
nel pullman con tutti, ecc.).
E’ proprio la ricerca del realismo che forse ha
portato al principale errore del film, cioè cercare di ricreare una sorta di
“neorealismo” più vero del vero, anche nei dialoghi. Forse è per questo che mi
è sembrato stonato il modo di parlare di alcuni protagonisti. Nella vita reale,
anche io come, penso, gli altri cagliaritani, utilizziamo espressioni e singoli
vocaboli in sardo, di solito parlando prevalentemente in italiano. Nel film,
però, gli attori utilizzano frasi e le esclamazioni in sardo senza spontaneità:
ma itta c’intrada “m’indi futtu” per
dire “me ne frego”? i giovanissimi parlano così? Oppure “folaga”, termine che
era forse attuale quando il racconto è stato scritto, ma oggi? (attendo
eventuali precisazioni sull’attualità dei vocaboli, ma la sensazione di forzatura
nell’ascoltarli rimane).
Le due amiche-sorelle di Mereu vagano per una città
assolata, forse ripresa un po’ troppo in fretta, e con una tenerezza che
stringe il cuore rimandano il momento di tornare a casa, nel quartiere-ghetto
di Santa Lamenera/S.Elia.
Tutto potrebbe succedere,
e infatti qualcosa succede: in maniera un po’ sbrigativa, ma è il difetto dei
film, che non riesce a “collocare” l’arrivo tempestivo della “maga”
interpretata da Micaela Ramazzotti (ancora una volta, perchè parla così? In una
periferia romana sembrerebbe naturale una parlata, per dire, veneziana?).
Però, a parte le mie che
sono delle pinnicche, il film è bello
e coraggioso nel cimentarsi in una impresa difficile: per cominciare con
Atzeni, però, sarebbe forse stato meglio Il
quinto passo è l’addio.
Intanto Bellas Mariposas, anche se imperfetto, ha
il grande merito di rendere visibile a tutti il bisogno che abbiamo di pensare
e parlare di noi: non solo i sardi (le belle farfalle sono dappertutto, e sono
una specie in grave pericolo), ma tutti quelli che vivono la realtà, fatta
anche (e non solo) della periferia, la povertà, il degrado, il riscatto, la
disperata voglia di vivere, e volare.
(l'illustrazione è di Gianluca Marras)
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