"Che tu possa vivere in tempi interessanti": così recita una antica
maledizione cinese. Direi che ci siamo in pieno, e che la monotonia
(cit.) non trova spazio nelle nostre vite quotidiane. Certo, non siamo,
mediamente, rivoluzionari o esploratori, guerriglieri o inventori, ma
semplicemente persone che cercano di vivere. O sopravvivere, dipende dai
momenti storici. Questo è uno di quelli, appunto, "interessanti".
C'è
grossa crisi, e quanto all'affrontarla, come diceva un geniale comico,
"la risposta è dentro di te...però è sbagliata". Cioè, probabilmente la
serenità che provo quando rifletto sull'enensima scadenza dell'ennesimo
contratto di lavoro non è normale: infatti, intorno a me, vedo molti e
diversi modi di affrontare questa cosa, e il comune denominatore, oltre
all'angoscia per il prossimo futuro, è una rassegnazione diffusa. Siamo
circa dieci "esterni" in questa amministrazione pubblica, prelavati da
apposita graduatoria per titoli ed esami; l'età media è 38 anni. Abbiamo
accettato un lavoro che inizialmente era di due soli mesi. Due mesi,
nemmeno il tempo di capire cosa stai facendo, in un mondo normale
verrebbero rifiutati perchè c'è o potrebbe esserci di meglio. Abbiamo
accettato, e abbiamo fatto bene, perchè il contratto ha avuto una
proroga: resta il fatto che circa dieci persone con diversi anni di
lavoro alle spalle, differenti esperienze lavorative e una età non più
verde in quel momento non stavano lavorando e hanno accettato un lavoro
di due mesi. Tutto, quindi, conferma gli studi e i dati bellamente
ignorati (forse anche non capiti) da istituzioni(?) che remano in altre
direzioni: il lavoro è sempre più precario, dura sempre meno, l'età dei
disoccupati è sempre più alta, in Sardegna l'80% di loro ha già diverse
esperienze lavorative, si attivano e si spengono centinaia di contratti
all'inseguimento dell'aiutino fiscale più conveniente. Questo mio,
nostro contratto a termine scadrà fra un mese e mezzo: c'è chi vuole
accumulare lo starordinario perchè da giugno "non si sa come andrà" e
non si profila nulla all'orizzonte, altri studiano per il megaconcorso
per il quale anche io ho comprato i testi salvo poi farmi sopraffare
dalla quotidianità che non lascia scampo nè tempo (e soprattutto
voglia).
Io vivo la cosa con distacco, osservandola come se non mi
riguardasse, come se non immaginassi che ritrovarmi di nuovo nella
routine della casalinga per scelta degli altri mi farà, tempo qualche
settimana, ripiombare nello sconforto. Sono passati, per fortuna, i
tempi in cui ero molto, molto arrabbiata, portavo su me stessa e pure
sugli altri il peso di questa ingiustizia. Ma nulla è dovuto, pare. Ho
letto
un post molto interessante, in cui un amico afferma che
“...questo è il periodo storico nel quale ci tocca vivere...Ad altri è
toccata la guerra, ad altri la fame, ad altri il
benessere: a noi questo”. E' vero, anche se non tranquillizza, non
conforta, non consola constatarlo. Questo ci è toccato e questo dobbiamo
affrontare come meglio possiamo, anche, se necessario, facendo di
necessità virtù, ossia abituandoci all'idea che oggi "ce n'è" e domani
no, e possibilmente che
questo meccanismo non incide sul nostro valore.
Perchè il rischio è questo: mentre diventiamo materiale per le più
svariate indagini statistiche, carne da macello per la propaganda
politica, perfino ispirazione per manuali, libri, film,
possiamo anche
sentirci stanchi, sfiancati, appunto rassegnati (e, curiosamente, sempre
meno arrabbiati) a un destino che non abbiamo scelto, quasi colpevoli
perchè non stiamo riuscendo in quello che ai nostri padri veniva
naturale. Cerchiamo di resistere, ognuno come può e sa. Io, nella mia
personale versione, penso che la vita è anche altrove, e che la serenità
può e deve prescindere da certi meccanismi ad orologeria:
lo dobbiamo
fare per noi, e per gli altri.