Se a 35 anni non esisti più.

Hai 35 anni, poco più o poco meno? Allora sappi che sei potenzialmente finito: se perdi il lavoro non lo ritroverai, non parliamo nemmeno di chi lo sta ancora cercando. Prima di te ci sono gli stagisti, poi gli interinali, poi chi conosce più gente di te: e sono, scusate il linguaggio aulico, cazzi amari. E non mi venite a dire che c’è altro nella vita: perché (anche) il lavoro è parte integrante di te, non a caso la prima cosa che viene chiesta è “tu cosa fai? (che sia giusto, ingiusto, psicologicamente scorretto, un prodotto della società capitalista e becera, o dell’arido arrivismo da accumulo del suddetto capitale lo lascio disquisire ad altri). 

Sappiate soltanto che in soli due anni, tra il 2007 e il 2009, gli anni più acuti della crisi economica, l'esercito dei disoccupati è cresciuto di 438 mila persone. Di questi, quasi un terzo ha tra 35 e 44 anni. Nel 2007 quelli della loro età senza lavoro erano 357 mila. Nel 2009 sono arrivati a 487 mila. Ora sono più di mezzo milione.
E stiamo parlando di quelli in qualche modo censiti: non è difficile immaginare che il numero sia molto più elevato.
L’inchiesta di Repubblica mette per iscritto quella strana sensazione che avvertivo da un po’: e cioè che nonostante qualcuno sostenga che la crisi stia passando, e talvolta, temerariamente, che la Sardegna l’ha gestita meglio degli altri (!!), la situazione sia, in realtà, più tragica che mai. La realtà è una bella cosa, e brutta al tempo stesso: perché oggi sembra di stare, invece, in un brutto sogno, dove tutti – governanti, studiosi, gli economisti e i sociologi, i media e perfino l’uomo della strada- non si accorgono del disastro intorno (e non stiamo a scomodare il Titanic: qui la finiremo come in un romanzo di Steinbeck).
La situazione dei giovani (quelli veri, fra i 15 e 24 anni) è difficilissima, è vero, ma almeno si spera che abbiano imparato dai fratelli maggiori, quei mentecatti che ci credevano, da soli o perché li hanno educati così, che spesso hanno studiato, o magari no perché hanno cominciato a lavorare presto, trovandosi talvolta dopo 15 anni di contratto a tempo indeterminato in mezzo a una strada. La condizione dei lavoratori più “anziani” è tragica, e quasi sempre l’unica soluzione sono gli ammortizzatori sociali, quando ci sono. 

Poi ci sono loro, quelli che Repubblica chiama “i nuovi senza speranza”, quelli dell’età di mezzo. Per una volta trovo che non si sia peccato di eccessiva enfasi, perché arrivati a un certo punto –anagrafico, ma soprattutto di esperienza e di vita- ci si rende conto che semplicemente il lavoro non c’è, punto. A quando uno studio dei danni economici e sociali, nonchè umani, di una intera generazione disintegrata?

Penso alla mia regione e mi viene da piangere
, perché da un lato comprendo e apprezzo chi non molla, dall’altro resto impietrita dalla pesantezza delle parole, per definizione vuote. “Politiche del lavoro”, “autoimpresa”, “formazione”, talvolta, ahimè, perfino il problema cosmico di chi si è iperqualificato, essendo convinto di trovare il lavoro “giusto” nella nostra isola, come se non l’avesse conosciuta nei precedenti venti o trenta anni. Per il resto, nulla di nuovo: le conoscenze valgono più di tutto, il posto fisso non esiste più, il far west della legislazione consente qualunque cosa, perché il lavoro, semplicemente, non ha più la dignità di cinquant’anni fa, quando una commessa lavorava serenamente tutta una vita nel negozio, l’impiegato faceva l’impiegato, lo studio ma anche il duro lavoro portavano risultati e avere più di 30-35 anni non era un handicap invincibile e la lettera scarlatta del fallimento sociale, ma una normale condizione di vita.

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