Sarditudini

Chissà se agli altri capita, mi sono chiesta sempre più spesso ultimamente. Cioè, chissà se agli abitanti dell’Umbria, della Toscana, della Basilicata o del Piemonte succede di domandarsi chi sono e se per caso il loro essere in un certo modo dipende anche dal luogo che abitano. Soprattutto, sarei curiosa di sapere se anche a un piemontese, a un veneto o un laziale capita di discutere del concetto di “identità” come succede ai sardi. Sempre che esista questa identità, eh. Chissà se hanno tempo di pensarci e di parlarci sopra, chissà se sentono la differenza, sempre che ci sia, mica sono sicura, intendiamoci.
E mica sono certa che mi piaccia essere diversa, da chi e da cosa e da quale modo di vivere poi lo posso soltanto immaginare, proprio come si immaginano i preconcetti e i pregiudizi.

Leggendo questo bel post mi sono resa conto che l’esperienza comune e unificante della vita dei sardi è soprattutto quella della partenza, del lasciare l’isola, di solito su un traghetto, con un po’ di inquietudine, con il momento rovinato da una piccola farfalla nello stomaco, perché non è naturale staccarsi dalla terra e avere il tempo di vederla rimpicciolire in lontananza. Almeno l’aereo evita lo stillicidio, è rapido e indolore, non ti accorgi quasi di non essere più in Sardegna.
Come se fosse ogni volta una partenza definitiva, anche se è soltanto per una vacanza; come se non si dovesse tornare più; come se il marchio impresso nel genoma sardo non fosse quello della longevità che tanto piace ai telegiornali per i pezzi “di colore”, ma piuttosto quello del distacco, dell’emigrazione e del non-ritorno. Come hanno fatto moltissimi prima di me, di noi, con più coraggio, necessità, praticità, poche chiacchiere e molta necessità.

Viviamo, soprattutto quelli della mia generazione che non si sono strappati in tempo alla terra madre, il terrore (a questo punto credo atavico) di doverla lasciare; e la debolezza di non riuscire a farlo per vivere altrove una vita diversa non mi sento di condannarla.

E’ un po’ diverso per chi riduce l’identità a macchietta: non ce la posso proprio fare ad iscrivermi al gruppo di Facebook “grazie a dio sono sardo” (e simili), anche perché non ho capito in che senso (se c’è). Non ce la posso fare a sentire le conduttrici televisive cinguettare sull’ “essere sardi”. Non ce la posso nemmeno fare, ovviamente, ad assistere a discussioni serie in cui alcune persone provenienti dalla Lombardia raccontano della folcloristica (?) mancanza di puntualità degli uffici e dei pullman in Sardegna, manco loro fossero svizzeri e noi, che so, messicani che fanno la siesta, per completare il festival del luogo comune.
Comunque, non si può vivere lontani da questo luogo, drammaticamente, anche se ti dà così poco – perché non di soli cieli, mare, maestrale e conosciuti e sempre diversi spazi si può vivere.La Sardegna è madre e matrigna, e mi rendo conto di vivere con lei un rapporto irrisolto, conflittuale, fatto di amore e odio, un po’ come racconta questa lettera:


Da L’AltraVoce.net

Caro direttore, è da tempo che volevo provare a mettere in parole un concetto inafferrabile e intimo, che fino a qualche tempo fa non si filava nessuno mentre oggi è sulla bocca di tutti, e forse è un bene o soltanto un prodotto commerciale: la mia identità. Non mia personale, ovviamente, ma quella di una sarda che vive oggi in Sardegna.
Parafrasando il bel titolo del saggio di Bachisio Bandinu, da me acquistato e letto in tempi non sospetti (e cioè prima che il termine “identità” diventasse di moda), questa mia vorrebbe essere una piccola “Lettera di una giovane sarda”. Rivolta a chi?

Soprattutto, con simpatia e anche con quel senso di sollievo che deriva dallo scoprire di non essere soli, a coloro i quali si sono sempre sentiti sardi anche senza spiegarsi perché e percome nei dettagli, accettando magari anche difetti capitali come, ad esempio, non parlare sa limba, prima nell'indifferenza generale, oggi con il terrore che qualcuno te lo rimproveri. E che magari la inserisca come requisito preferenziale per i concorsi pubblici, come se parlare la lingua in Sardegna, oggi, fosse più “meritevole” del semplice fatto di averci vissuto per una trentina d'anni laurea compresa, sperimentando ogni tipologia di porte e portoni sbattuti in faccia e assistendo a “trasse” di ogni genere nel pubblico e nel privato.
[…continua qui…]

Il rapporto tormentato se possibile peggiora in tempo di competizione fra diversi schieramenti politici e corrispondenti visioni del mondo, nonché dei volantini elettorali che mi ritrovo nella cassetta della posta. A febbraio, infatti, in Sardegna si voterà per il rinnovo del Consiglio Regionale.
Mi chiedo se per i due candidati alla poltrona di governatore – l’uscente Renato Soru per il Pd e Ugo Cappellacci per il PdL – certe opinioni e certi sentimenti di un certo tipo di elettore, e le conseguenti decisioni su cosa fare del proprio voto, abbiano importanza.

Mi faccio parecchie domande, ultimamente, ecco.

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